Gli effetti avversi della crisi climatica globale non si limitano a conseguenze direttamente osservabili, come lo scioglimento dei ghiacciai o l’innalzamento e l’acidificazione dei mari. Molto più difficile da misurare ma non meno pertinente è la portata del fenomeno delle migrazioni climatiche. Protagoniste di questo esodo sono milioni di persone che abbandonano le proprie case e il proprio Paese perché il cambiamento climatico, responsabile di siccità, eventi atmosferici violenti e distruttivi e molti altri sconvolgimenti, semplicemente rende sempre più inospitale il luogo di mondo in cui la loro vita è stata vissuta finora.
A causa di repentine o graduali alterazioni dell’habitat, questo allontanamento più o meno obbligato avviene improvvisamente o nell’immediato futuro e può avere carattere temporaneo o definitivo. È la realtà di milioni di esuli chiamati “migranti ambientali” o “rifugiati climatici”.
VUOTO NORMATIVO = ASSENZA DI TUTELA
I rischi ambientali possono ledere i diritti umani, ma il riconoscimento formale dello status di rifugiato climatico ancora non esiste nel quadro giuridico attuale. L’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 definisce idoneo al riconoscimento dello status di rifugiato chi abbandona lo Stato di cui è cittadino in favore di uno Stato straniero, perché costretto da persecuzioni politiche, etniche o religiose. La definizione si è ampliata nel tempo con ulteriori protocolli fino ad ammettere guerre e conflitti e mutamenti radicali di carattere politico, sociale o economico tra le motivazioni sufficienti a ricercare un’adeguata protezione altrove. Non c’è traccia della crisi climatica, ufficialmente.
Ad oggi, le norme del diritto internazionale non offrono quindi tutele quando la motivazione dello spostamento è legata allo stress ambientale e al cambiamento climatico. L’impossibilità di cercare protezione internazionale espone anche al rischio di spostamenti forzati ripetuti. A maggior ragione, incidere a livello giuridico è una priorità.
UNA FUGA DISOMOGENEA
Il fenomeno migratorio ha molte cause e spesso compresenti, ma è innegabile che i fattori climatici siano tra queste. Ciò è particolarmente vero nelle aree più povere del Pianeta in cui anche la capacità di risposta delle autorità alle avversità dettate dalla crisi ambientale è inefficiente e tardiva. Dove esistono risorse per tamponare i danni, le persone rimangono. Questa opportunità è data solamente a chi vive in un contesto di istituzioni efficienti, soccorso, un certo livello di benessere. Dove le istituzioni mancano di adempiere a questo ruolo – l’alluvione che il 10 settembre ha travolto la Libia ne offre un drammatico esempio – l’unica scelta per molti dei sopravvissuti è cercare una vita migliore altrove. Questa è la risposta all’emergenza climatica che, stima l’UNHCR, daranno oltre 200 milioni di persone ogni anno entro il 2050.
SFOLLAMENTO INTERNO
Oltre alla prospettiva globale, c’è quella particolare di ciascun Paese che si trova ad affrontare situazioni di sfollamento interno ai propri confini. In Italia, ad esempio, nel 2022 gli sfollati interni sono poco più di 4000, ma nel 2009, dopo il sisma che distrusse L’Aquila, furono ben 75.000. Lo spostamento forzato di flussi di persone a livello nazionale è legato al verificarsi di cataclismi e la sempre maggiore frequenza con la quale si presentano eventi estremi come alluvioni, tempeste e incendi non potrà che acuire il fenomeno. L’Internal Displacement Monitoring Service ha misurato che, a livello mondiale, il 50% degli sfollati interni nell’anno 2021 è diventato tale a causa di disastri naturali e di cambiamenti ambientali a lenta insorgenza. Le previsioni per il futuro assumono una dimensione drammatica se paragonate al fatto che alla fine del 2022 sono 71 milioni gli sfollati interni ai Paesi, un numero in rapida e progressiva crescita: nel 2021 erano quasi 12 milioni in meno.
Lo stress ambientale costringe oggi a migrazioni prevalentemente interne e concentrate nel Sud del mondo, ma questo non ci induca a pensare che sia impossibile per noi agire. Ambiziose politiche climatiche possono giovare fin da subito.
UN APPROCCIO ANTICIPATORIO È DETERMINANTE
La fuga può portare queste persone in un’area diversa del proprio Paese o anche ad attraversare un confine internazionale… Indipendentemente da ciò, il successivo intervento deve tenere conto dell’aspirazione di alcuni di ritornare nel proprio territorio di origine e di altri che invece vogliano ricostruire la propria esistenza nel luogo di arrivo. Occorre dunque orientare le soluzioni e l’accoglienza nel rispetto di queste due ambizioni. Un rimpatrio che avvenga prematuramente, ad esempio, non fa altro che aumentare il rischio di ulteriori sfollamenti e non costituisce un ritorno sicuro. Anche mancati investimenti nelle necessità legate all’integrazione nel Paese ospitante espongono i migranti climatici all’ulteriore peggioramento della propria condizione.
Molti ambiti meritano considerazione: la risoluzione dei conflitti, il consolidamento della pace, la riduzione del rischio di catastrofi, la resilienza climatica, la sicurezza alimentare e la riduzione della povertà hanno un ruolo e devono tutti essere rafforzati.
INCONTRIAMOCI SUI SOCIAL
Senza opportuna preparazione la vita, la sicurezza, il benessere e il potenziale economico di queste persone, costrette a migrare dalla crisi climatica, saranno compromessi. Ogni settimana continuiamo a interrogarci su quali siano le azioni da intraprendere per affermare i diritti sociali, economici e ambientali delle persone, nel solco della dottrina sociale della Chiesa e allineati agli obiettivi di sviluppo sostenibile. Dall’Ufficio Pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Alba, ti invitiamo a partecipare alla discussione attraverso i nostri canali social. FB: upsl.diocesi.alba – IG: pastoralesocialelavoro.alba